Al di là delle montagne. Terza puntata - Confluenze

Al di là delle montagne. Terza puntata

di Piero Maderna. Diario di un viaggio nel nord della Romania tra Transilvania e Maramureş assieme a Confluenze e ViaggieMiraggi. La scoperta di una regione remota e ricca di storie e di culture il cui fascino va ben oltre il mito di Dracula, e di una delle ultime civiltà contadine d’Europa.

Terzo giorno – Ancora chiese di diverse confessioni, antichi tappeti e moderni mosaici

 

Partiamo verso le 9 in direzione Cluj. Il viaggio dovrebbe durare intorno alle quattro ore, ma sarà anche oggi a tappe, quindi saranno quattro ore al netto delle pause.
La prima tappa è la cittadina di Mediaş. Poco prima di raggiungerla, passiamo da un villaggio abitato in prevalenza da rom, che per la maggior parte per vivere lavorano il rame. È uno dei classici mestieri tradizionali dei rom, non solo qui. Gli usi del rame sono ovviamente molteplici; per esempio da queste parti, visto che molti hanno delle piccole distillerie per farsi la grappa in casa, c’è un gran bisogno di alambicchi. Ed ecco che l’offerta viene incontro alla domanda. In tutta la Romania, l’abbiamo già imparato lo scorso anno, c’è una grande tradizione del bere grappa, come del resto in tutti i Balcani. È veramente un rito di socialità che ha radici profonde. Sono in genere distillati di frutta, soprattutto di prugna ma anche di mele, pere, albicocche o mele cotogne. La principale variante, al di là del gusto, riguarda il processo di distillazione. Se la grappa è distillata una sola volta si chiama ţuica, se è distillata due volte, quindi più forte, viene di solito chiamata palinca.
Le case dei rom, in questo villaggio ma un po’ dappertutto in Transilvania, sono ovviamente autocostruite, di solito in mattoni, con un gusto marcatamente kitsch che tende al neoclassico. Spesso non sono finite. Una addirittura ha dentro un’altalena… e comunque sì, qui i rom vivono nelle case, non nei campi. Non sono nomadi. Questo è, in gran parte, il risultato di un’operazione di “sedentarizzazione” messa in atto dal regime comunista. Ma qui il discorso sarebbe lungo, lo riprenderemo più avanti.

A Mediaş si può ammirare una torre pendente consolidata 80 anni prima di quella di Pisa. È quella della chiesa fortificata di S. Margherita, che è la fusione di 3 chiese di epoche diverse, l’ultima del 1488 in stile gotico. La chiesa è passata nei secoli attraverso varie modifiche. Nel 1551 furono aggiunte quattro torri piccole, poi rinnovate nel 1783, quando fu cambiata anche la struttura del tetto. Secoli fa la torre più alta era fondamentale come posto di avvistamento, e altrettanto fondamentale era il ruolo del trombettiere che suonava l’allarme se vedeva un pericolo in avvicinamento.
Sulle pareti della chiesa, che ora è una chiesa protestante, restano visibili alcuni rimasugli di affreschi del XIV e XV secolo; ma soprattutto è strapiena di tappeti anatolici, come quella di Biertan ma in numero decisamente maggiore. Alcuni risalgono al XVI secolo. Il più antico e prezioso, con un motivo che rappresenta degli scorpioni, vale 2 milioni di euro.
L’altare gotico del 1480 risale anch’esso, naturalmente, a quando era una chiesa cattolica e rappresenta la Passione. È opera della scuola viennese; se ci fossero dubbi in merito, la prova evidente è che il panorama di Gerusalemme rappresentato sotto Gesù crocifisso è in realtà quello di Vienna. Ora però, nella navata destra ai piedi dell’altare, si è aggiunta una statua di Martin Lutero.

In questa piccola città, ci racconta la nostra guida che è un anziano signore molto tedesco nell’aspetto e nei modi, convivono dodici confessioni religiose diverse. Mediaş ora ha 40.000 abitanti, ma solo 30 anni fa erano 80.000. È un esempio di come la regione si stia spopolando. Horia ci dice che ormai la chiesa si riempie solo quando si celebra il Natale: allora addirittura a volte i posti non bastano, perché è un evento così importante che per l’occasione non ci sono solo sassoni, ma anche rumeni, ungheresi, rom; e non mancano i politici locali.

Ripartiamo verso Blaj. Lungo la strada sono evidenti le tracce lasciate da una fabbrica di nerofumo (un pigmento nero derivato dal petrolio, utilizzato soprattutto nell’industria della gomma ma anche negli inchiostri): nonostante la fabbrica abbia chiuso nel 1993, ancora oggi i tetti sono anneriti per chilometri, ma purtroppo non è solo questo. Horia ci racconta che in questa zona non si contano i casi di malattie respiratorie. Il nerofumo è una sostanza classificata come probabile cancerogeno dalla IARC, l’agenzia internazionale di ricerca sul cancro, e per decenni qui è stato prodotto senza nessuna misura di contenimento dell’impatto ambientale. Quando la fabbrica era in funzione, anche gli alberi erano neri, e perfino le pecore avevano la lana grigia.
A Blaj ci aspetta un’altra chiesa, questa volta greco-cattolica. La Chiesa greco-cattolica rumena è una Chiesa cattolica di rito bizantino e di lingua liturgica rumena, presente in Romania (specialmente in Transilvania) e in altri paesi del mondo.
Quando nel 1683, dopo oltre 150 anni di sovranità turca, gli Asburgo riconquistarono non solo l’intera Ungheria ma anche il principato semi-indipendente di Transilvania, cominciarono a imporre gradualmente la propria autorità appoggiandosi alla Chiesa cattolica. Sotto la pressione asburgica, molte chiese protestanti passarono al culto cattolico mentre gli ortodossi, già provati dalla secolare lotta con il calvinismo dell’Ungheria dei nobili, salvarono la propria religione tradizionale grazie alla cosiddetta “Unione con Roma”.
Preparata ad Alba Iulia nel sinodo del 1697 e decisa ufficialmente in quello del 7 ottobre 1698, l’unione con Roma vide l’accordo di tutto il clero ortodosso della Transilvania e degli altri territori più occidentali abitati dai rumeni (il Banato, la Crișana, il Sătmar e il Maramureș). Venivano riconosciuti formalmente il primato di Roma e alcuni punti chiave della dottrina cattolica (il Filioque, il pane azzimo per l’Eucaristia e l’esistenza del Purgatorio) pur senza rinunciare alla liturgia e alle tradizioni orientali.
Moltissimi sacerdoti ortodossi e i loro fedeli si convertirono, anche se per la maggior parte di questi non era del tutto chiara la differenza tra le due denominazioni dal momento che esteriormente nulla era mutato.
A Blaj, uno dei maggiori centri del cattolicesimo nell’Europa orientale, sorsero le prime scuole in cui il rumeno veniva insegnato utilizzando l’alfabeto latino e non più quello cirillico. Insieme ad esse, si diffusero anche i testi degli studiosi, scrittori e teologi greco-cattolici della cosiddetta Scuola Ardeleana, il movimento culturale e patriottico che svolse un importante ruolo nella riscoperta delle radici latine della nazione rumena e per lo stesso riconoscimento dell’identità rumena. Alla fine del XVIII secolo l’Impero riconobbe ufficialmente la Chiesa greco-cattolica e con essa, almeno in parte, la maggioranza rumena che fino ad allora in Transilvania era stata soltanto “tollerata”.
Durante il periodo comunista la Chiesa greco-cattolica rumena fu perseguitata per volontà di Stalin in persona, il quale già nel 1946 aveva provveduto ad annientare la Chiesa greco-cattolica ucraina, ossessionato dall’idea che le “divisioni del Papa” costituissero l’unico vero ostacolo al trionfo del sistema sovietico.
La cattedrale della Santissima Trinità di Blaj, completata nel 1748, ha una facciata con due torri e al suo interno una bella iconostasi barocca, davanti alla quale si trova una statua di S. Antonio.

A Cluj con Mattia Corvino

Arriviamo a Cluj nel primo pomeriggio, passando dai quartieri periferici pieni di nuovi palazzi consacrati alla New Economy o Net Economy, fate voi, che pare ne facciano una piccola silicon valley rumena.
Terza città del Paese con 379.000 abitanti considerando l’area metropolitana, Cluj è il principale polo economico del nord-ovest e allo stesso tempo il più grande polo universitario della Transilvania e il secondo del Paese. Il nome Cluj deriva secondo alcuni dal latino Castrum Clus usato per la prima volta nel secolo XII. Il termine Clus significa chiuso e si riferisce alle colline che chiudono la città.
Ci sistemiamo velocemente nel nostro hotel, il Capitolina, e usciamo per un giro del centro città, sempre guidato da Horia anche se qui ci ricongiungiamo finalmente con Eugenio e con Donata, che ha trovato un volo per tornare a casa e partirà domani mattina presto.
La città, nelle sue architetture, ha una forte impronta magiara e non è nulla di strano se si pensa che il più grande re ungherese, Mattia Corvino, è nato qui. A dirla tutta il buon Mattia aveva origini rumene, come il nostro Horia ci fa notare con malcelata ironia mentre, davanti alla sua casa, ci racconta un po’ chi era.

Mattia Corvino, Mátyás Hunyadi, detto Mattia il giusto (Cluj-Napoca, 23 febbraio 1443 – Vienna, 6 aprile 1490), è stato re d’Ungheria dal 1458 al 1490.
Il termine Corvino gli fu attribuito da un biografo italiano, il quale affermava che la famiglia Hunyadi (sul cui stemma era ritratto un corvo) discendeva dall’antica famiglia romana dei Corvini.
Mattia apparteneva ad una casata molto ricca: era figlio di un nobile d’origine valacca (quindi rumena), nonché voivoda di Transilvania, e di una nobildonna ungherese. Alla morte del re Ladislao V, avvenuta nel 1458 forse per avvelenamento, il giovane Mattia fu eletto re d’Ungheria con l’aiuto del suo zio Mihály Szilágyi.
Nel 1464 liberò la Bosnia sconfiggendo i Turchi. Diede inizio nel 1468 alla crociata contro l’ex suocero Podebrady, che aveva lasciato la fede cattolica per quella riformista di Jan Hus, conquistando Moravia, Slesia e Lusazia nel 1469. Morto il Podebrady, continuò la guerra contro il successore Ladislao II di Boemia, che nel 1478 fu costretto a riconoscergli le conquiste firmando la pace di Olomouc, con la quale a Mattia fu riconosciuto anche il titolo di re di Boemia.
Nel 1485 guadagnò il controllo di parte dell’Austria. Tentò anche di ottenere la corona imperiale ma gli fu preferito Massimiliano d’Asburgo. Fece dell’Ungheria un potente stato, dove, con la seconda moglie Beatrice d’Aragona, introdusse la cultura rinascimentale italiana.
Mattia ebbe al proprio fianco nel conflitto con gli Ottomani Vlad III, principe della Valacchia. Sì, proprio lui, Vlad l’Impalatore aka Dracula. Benché Vlad avesse molto successo contro gli eserciti ottomani, i due sovrani cristiani entrarono in conflitto nel 1462 a causa delle crudeltà di Vlad contro i mercanti sassoni, portando Mattia ad invadere la Valacchia e ad incarcerare Vlad a Buda. Tuttavia, l’ampio sostegno che Vlad III riceveva da molti sovrani europei spinse Mattia Corvino a concedere gradualmente uno status privilegiato al suo controverso prigioniero.
Mattia, che non aveva figli legittimi, pochi anni dopo morì improvvisamente scatenando una controversia per la sua successione.
La tradizione ungherese considera Mattia il più giusto tra i vari sovrani e sono numerose le leggende e i racconti popolari che lo vedono protagonista. Questi racconti parlano dell’abitudine del re di viaggiare in incognito nel paese per parlare con il popolo, scoprendo di volta in volta le malefatte o gli inganni dei vari potenti locali. Il suo intervento più o meno diretto riusciva a ristabilire l’ordine.
Insomma, non è un caso se l’enorme statua equestre di Mattia con la scritta “Mathias Rex” campeggia nella piazza principale della città. Il progetto di questo monumento, nel 1894, vinse il Gran Premio all’Esposizione Mondiale d’Arte a Parigi. Sulla stessa piazza si affaccia la chiesa di San Michele, nata cattolica, diventata protestante e successivamente tornata cattolica.
Rispondendo agli appelli del re Stefano V d’Ungheria, coloni tedeschi cominciarono a insediarsi a Cluj dal 1270 circa. All’inizio del XIV secolo la città aveva tre nomi: in tedesco Klausenburg, in ungherese Kolozsvár, in rumeno Klus o Cluj. È a quest’epoca che iniziò la costruzione della Chiesa di San Michele, di impianto gotico.
A metà del XVI secolo, la popolazione ungherese della città si convertì all’unitarianismo (dottrina protestante che nega la Trinità) e questo causò la dispersione e l’assimilazione della popolazione tedesca nella massa ungherese.
Nel 1699, in seguito alla Pace di Carlowitz, la Transilvania entrò a far parte dell’Arciducato d’Austria preservando al tempo stesso il suo statuto di principato autonomo.
Dopo la costituzione dell’Austria-Ungheria nel 1867, Cluj e tutta la Transilvania furono annesse al Regno d’Ungheria. In termini economici e demografici, Cluj era la seconda città del Regno, seconda solo a Budapest. Durante la seconda metà del XIX secolo, la città conobbe grandi trasformazioni a livello urbanistico (le mura furono smantellate per costruire i grandi complessi architettonici attuali) e a livello politico-demografico (lo sviluppo della borghesia rumena).
Dopo essere diventata rumena nel 1918, Cluj ritornò ungherese tra l’agosto 1940 e l’agosto 1944, riprendendo il nome ungherese, Kolozsvár, poi fu occupata dai sovietici dal 1944 al 1952. Nel 1974 Nicolae Ceaușescu decise di aggiungere Napoca al nome della città, cercando di affermare la continuità della presenza rumena.
Una certa tensione nazionalista si manifestò dopo il 1990, quando Cluj fu governata per parecchi anni da un sindaco nazionalista, Gheorghe Funar. Ma attualmente la convivenza delle diverse etnie è tranquilla, e numerose famiglie sono miste e bilingui. Tra i simboli della città contenuti nel nuovo stemma adottato nel 1999 c’è la lupa, che fa riferimento alla “latinità” del popolo rumeno.

Una certa tensione nazionalista si manifestò dopo il 1990, quando Cluj fu governata per parecchi anni da un sindaco nazionalista, Gheorghe Funar. Ma attualmente la convivenza delle diverse etnie è tranquilla, e numerose famiglie sono miste e bilingui. Tra i simboli della città contenuti nel nuovo stemma adottato nel 1999 c’è la lupa, che fa riferimento alla “latinità” del popolo rumeno.

Per cena si unisce a noi Lucian, del Convivium slow Food di Cluj, per aiutarci ad apprezzare ancora meglio la gastronomia transilvana. Il ristorante si chiama Rod e i piatti forti del menù sono due: l’alternativa è tra trota con asparagi (che è la mia scelta, avevo voglia di un po’ di pesce ed è la prima volta che ce lo propongono) e maiale Bazna con patate. La trota è più che dignitosa, ma mi hanno detto che anche il maiale era molto gustoso. Si tratta, tra l’altro, di una razza tipica di queste parti, selezionata in origine dai sassoni a fine ‘800. Bazna è proprio un villaggio sassone, dove questa razza è nata, sembra per caso, dall’incrocio tra l’antica razza locale chiamata Mangaliţa e la razza inglese Berkshire. Dato che i Mangaliţa sono piuttosto piccoli e hanno ritmi lenti di riproduzione, l’allora direttore del complesso termale di Bazna, dove soggiornavano due ingegneri inglesi, aveva strappato ai due ospiti la promessa di mandargli una coppia di grossi maiali Berkshire dall’Inghilterra. Ma durante il viaggio la scrofa morì, e così non rimase altra scelta che far accoppiare il verro con una scrofa Mangaliţa. Ne venne fuori un maiale dalla carne saporita ma piuttosto grassa, anche se recenti studi l’hanno rivalutata anche in questo senso: pare che sia ricca di colesterolo, ma di quello “buono”.
Mentre mangiamo all’aperto, sotto una tettoia, scoppia un violento acquazzone: non è certo la prima volta in questi giorni, ma abbiamo visto che per fortuna passa presto. Anche stavolta è così, basta indugiare qualche minuto e bere un bicchierino di palinca in più brindando come si usa qui: “noroc!”.

Regaliamo a Horia, che da domani non sarà più dei nostri, una bottiglia di vino. Meno male che le zie premurose ci hanno pensato, e hanno trovato il tempo di occuparsene. Lui ringrazia con un bel discorsetto, e anche noi lo ringraziamo per la sua gentilezza, la sua innata eleganza e tutti gli aneddoti curiosi e divertenti che ci ha regalato.
Dopo cena, con Eugenio, Lucian, Elena e Gabriella ci concediamo anche una birra in un pub. Naturalmente si parla soprattutto di viaggi, e anche di ViaggieMiraggi, di Bosnia e di Palestina, due paesi con una storia travagliatissima e con grandi problemi ma ai quali siamo molto affezionati. E così la serata finisce in gloria.

 

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