Aleksandar Zograf: breve storia di famiglia - Confluenze

Aleksandar Zograf: breve storia di famiglia

di Aleksandar Zograf. Una storia di famiglia che ritorna a ritroso alla Seconda guerra mondiale. A raccontarla e a raccontarsi è il noto fumettista Aleksandar Zograf. Un'anticipazione del suo nuovo libro in uscita nella primavera 2021 grazie alla collaborazione tra Confluenze, 001 Edizioni e Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa.

Mi ricordo di una vecchia intervista televisiva al regista Aleksandar Petrović. Mentre viaggiava tra Belgrado e Pančevo parlava di quel territorio come del «suo mondo,» identificandolo in qualcosa che aveva determinato in modo rilevante la sua poetica. Ero sorpreso. Non potevo crederci, Aleksandar Petrović rappresentava per me una personalità molto importante in quanto uno dei principali rappresentanti dell’«Onda Nera» della cinematografia jugoslava, quel fenomeno che tra gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta segnò forse il coronamento di tutta la scena artistica del paese. «L’Onda nera» fu la prova che in un paese socialista era possibile creare un’opposizione, ma anche una poetica creativa distintiva e molto critica che aprì la strada ad opere d’avanguardia a volte percepite come eccessivamente libere persino nei paesi occidentali. Quei film furono finanziati con i soldi dello Stato, a seconda del periodo storico censurati o celebrati, nascosti sotto al tappeto o innalzati a risultati artistici di valore.

Come aveva potuto allora uno come Aleksandar Petrović separare da tutto il resto proprio quel paesaggio, lungo una strada di provincia in cui non c’è niente di speciale se non qualche cupo capannone industriale, qualche casa e una pianura infinita delimitata dalle paludi? Come poteva tutto ciò avere alcun tipo di importanza, attrattiva, qualsiasi cosa? Il motivo della mia sorpresa si trovava nel fatto che quel tratto di strada per qualcuno era veramente importante, un tratto di strada che era stato il palcoscenico della vita e della morte di una famiglia, la mia famiglia.

I miei nonni materni, Petar e Spasenija Pavkov, nel 1934 si stabilirono a Krnjača, proprio lungo quella strada che da Belgrado porta verso Pančevo. Divennero i proprietari di una taverna al cui interno si trovava una parete che conduceva ad una stanza segreta. Sapevo che durante la guerra vi erano stati nascosti i membri del movimento clandestino di resistenza, come anche le pubblicazioni antifasciste, il cibo, le medicine e le armi che da lì venivano distribuiti attraverso il Danubio alle unità partigiane o mandati dove servivano. Recentemente ho saputo che mio nonno aveva persino un nome di copertura, «Caro». Tutte queste erano attività molto pericolose e quasi gli costarono la testa quando furono scoperte dagli agenti nazisti.

Qualche anno fa ho sognato mio nonno, Petar Pavkov. La sua figura sembrava molto reale, stava in piedi immobile e mi guardava dritto negli occhi. Percepivo i miei occhi nel sogno riempirsi di lacrime. Sentivo me stesso pronunciare queste parole: "Avevo solo quattordici anni quando te ne sei andato. Non sono riuscito a chiederti tutto quello che avrei dovuto". Più tardi ho capito che in quel sogno si condensavano davvero tutti i miei sentimenti di quel periodo.

Mio nonno morì di cancro quando avevo quattordici anni. Era il 1977, ed io l’unico ragazzino in giro con la fissa dei movimenti artistici d’avanguardia di inizio secolo, ma intorno a me non erano in molti nemmeno quelli che avevano visto nel fenomeno del primo punk qualcosa di «speciale,» per non dire rivoluzionario. Anche se sapevo delle attività dei miei nonni durante la guerra, a quel tempo la guerra stessa pareva qualcosa di vago, distante, un’epoca leggendaria. Inoltre il nonno e la nonna ne parlavano assai di rado, anche se, soprattutto dal punto di vista del conformismo odierno, quello che fecero può essere considerato altruista, persino coraggioso. Volevo loro molto bene con l’animo semplice di un bambino, questo era tutto. Quando non osservavo con curiosità il mondo intorno a me ero immerso nella lettura dei fumetti, loro non ci trovavano niente di male. Peraltro Spasenija e soprattutto Petar erano persone gentili, ricordo i conoscenti che venivano a trovarli di continuo e con i quali chiacchieravano per ore, sulla vita, sul tempo passato e su tanto altro. Ora mi rendo conto che si trattava di storie e destini molto interessanti, rimpiango di non essere stato abbastanza intelligente da annotarli.

Il nonno trascorreva molto del suo tempo ad ascoltare pazientemente un lontano parente, che lavorava come portinaio in una fabbrica e affermava di conoscere la lingua degli animali e il mistero dei dischi volanti. Dubito che gli credesse, ma seguiva senza interruzioni le storie che questi descriveva sempre nei più incredibili dettagli. E’ con un profondo senso di gratitudine che ancor oggi penso ai momenti della mia esistenza condivisi con quelle persone. Allo stesso tempo sapevo pure che il nonno, nonostante le eroiche imprese durante l’occupazione nazista, dal 1950 al 1952 fu internato nel campo di Goli otok come prigioniero politico. In lui comunque non ho mai ravvisato tracce di risentimento, anche se ora son convinto ne avesse tutto il motivo: si ritrovò controcorrente rispetto alla linea ufficiale del paese, e questo dev’essere stato molto doloroso. Forse cercò di risparmiare a suo nipote tutte quelle storie, ma anche nel periodo in cui era malato di cancro, sebbene provato, non mostrava mai rancore. Ricordo la sua risata sonora, a distanza di tanti anni la sento ancora vibrare dentro di me.

Chi erano i nostri progenitori? Quanto facilmente riusciamo a dimenticare la storia della loro vita, il modo in cui hanno affrontato i drammatici sconvolgimenti causati dagli eventi storici che soprattutto nei Balcani sono stati anche troppi? Possiamo trarre qualche conclusione dalla loro esperienza, anche dopo che sono scomparsi dalla realtà che abitiamo?

Mi sono posto alcune domande e ho cercato delle risposte, in ciò provando forse a recuperare quanto mi ero perso al tempo dell’immaturità… Così sono andato alla ricerca di informazioni sulla mia famiglia negli archivi di Pančevo e della Vojvodina, attraverso una decina di libri che trattano il periodo dell’occupazione nazista in Serbia a cui si aggiunge ciò che avevo annotato durante le conversazioni con parenti e conoscenti.

Petar e Spasenija Pavkov erano originari dei dintorni di Sremska Mitrovica (i paesini di Laćarak e Kuzmin), ad una settantina di chilometri da Belgrado, ed è accertato che Petar nel 1926 venne assunto in un’industria dedita all’estrazione del tannino, diventando ben presto un attivista nel sindacato di fabbrica. Nel 1934 si trasferirono a Krnjača dove aprirono una taverna non lontano da un ponte sul Danubio. L’osteria si chiamava Kod Pere Sremca («Da Petar della Sirmia»). Anche se provenivano dalla regione della Sirmia, e lì abitavano i loro parenti, sapevo poco della loro vita precedente, come dei motivi per cui si erano trasferiti in quel territorio tra Belgrado e Pančevo. Mi ha comunque sempre stimolato l’immaginazione il fatto che Sremska Mitrovica si ergesse sopra una città dal passato glorioso, Sirmio, la quale verso la fine del terzo secolo D.C., al tempo della Tetrarchia, fu scelta come una delle quattro capitali dell’Impero romano. La città contemporanea ha coperto i resti di quella antica, spingendo gli strati misteriosi precedenti in profondità sconosciute. All’inizio degli anni Settanta un gruppo di entusiasti americani ebbe persino l’idea di spostare tutti gli abitanti di Sremska Mitrovica in una nuova località, per poter esplorare a fondo le vecchie fondamenta. Per i miei nonni invece il trasferimento dai dintorni di Sremska Mitrovica a Krnjača significò probabilmente avvicinarsi alla prosperità economica che si irradiava dalla capitale jugoslava e permetteva loro di mandare avanti un’attività imprenditoriale come la taverna.

Grazie alla recente costruzione del ponte sul Danubio, a Belgrado sorse un nuovo quartiere periferico lungo la sponda opposta del fiume dove iniziava la regione del Banato, il cui centro principale era la città di Pančevo che prima di allora si poteva raggiungere soltanto in barca. Al principio del ventesimo secolo Krnjača era un luogo scarsamente popolato, spesso vittima di allagamenti, ma grazie alla bonifica della piana circostante chiamata Pančevački rit («la palude di Pančevo»), portata a termine da un’azienda francese nel periodo 1929-1933, aumentò l’arrivo di immigrati. Đorđe Lobačev, forse il più famoso fumettista nella Belgrado del periodo antecedente alla Seconda guerra mondiale, agli inizi degli anni Trenta, dopo essersi trasferito temporaneamente a Pančevo, partecipò ai lavori di costruzione dell’argine del Pančevački rit. Ne scrive all’interno della sua autobiografia, dove racconta anche la visita del direttore generale dell’azienda francese quando fu formata la squadra di cosacchi, profughi dalla Russia, che lavoravano alla realizzazione dell’argine e della strada per Pančevo.

I cosacchi erano vestiti nei loro abiti da parata, con i colbacchi di pelle di lupo, attorno al torace le cinture porta proiettili, e durante l’ispezione salutavano con coreografie magnifiche, anche se al posto di fucili impugnavano delle vanghe! I rappresentanti della ditta francese continuavano a guardare sbalorditi, mentre in sottofondo venivano trasmessi gli inni jugoslavo e francese.

Bora Baruh

Al termine di questi lavori infrastrutturali si trasferì nella zona un gran numero di persone provenienti da diverse regioni e Krnjača, considerando che le tasse erano più basse rispetto al centro della capitale, diventò una destinazione famosa per le sue taverne a buon mercato, raggiungibili ora in treno o in autobus attraversando il ponte; vi si recavano in gita soprattutto gli abitanti più poveri di Belgrado, i quali potevano, ad un prezzo più basso, permettersi un buon pranzo e divertirsi con la musica delle numerose orchestre.

Petar Pavkov entrò presto in contatto con un gruppo di simpatizzanti del partito comunista (e degli altri partiti di sinistra) che gravitavano attorno all’Università di Belgrado. Tra le persone con cui collaborava vi erano intellettuali di spicco come Bora Baruh: erano entrambi nati nel 1911 e di qualche anno più grandi della maggior parte dei giovani ribelli che conoscevano, anche se a quel tempo piccole differenze d’età come queste erano considerate significative. Proveniente da una famiglia di ebrei sefarditi belgradesi, Bora Baruh (il suo vero nome era Baruh Baruh, ma rimase nella memoria con il nome serbo di Bora) era un noto pittore che nella seconda metà degli anni Trenta si specializzò a Parigi, dove si occupava anche di accogliere i volontari jugoslavi e organizzare la loro partenza verso la Spagna dove avrebbero combattuto tra le fila degli antifranchisti, finché le autorità francesi non lo scoprirono e rispedirono a Belgrado. Figure molto amate della resistenza al nazi-fascismo, Bora e i suoi fratelli Isidor e Josif furono tutti uccisi in quella lotta, così come le loro sorelle Rašela e Berta fucilate dagli occupanti, solo Sonja sopravvisse alla guerra.

In seguito Petar collaborò con Gligorije Ernjaković (colui che sarebbe poi diventato il famoso traduttore di Kant, di Nietzsche, dei diari di Felix Kanitz sulla Serbia del diciannovesimo secolo e persino di Kierkegaard tradotto direttamente dal danese!) e con Veljko Kovačević – prima della guerra vicino ai socialdemocratici, ricoprì poi il ruolo di avvocato difensore durante il processo del 1948 all’organizzazione chiamata «Lega della gioventù democratica jugoslava», cui apparteneva anche il famoso scrittore Borislav Pekić.

Kovačević negli anni successivi fu avvocato di alcuni tra i più conosciuti dissidenti jugoslavi come Milovan Đilas e Mihajlo Mihajlov. All’interno di quel gruppo conobbe anche Svetozar Vukmanović Tempo, figura di riferimento durante l’organizzazione delle proteste studentesche all’università di Belgrado del periodo prebellico. Durante il conflitto, tra le altre cose, Vukmanović Tempo si occupò dell’apertura di diverse tipografie clandestine e ricoprì un ruolo di primo piano nell’organizzazione del movimento di resistenza, diventando poi al termine della guerra uno dei principali funzionari di partito. Dopo aver pubblicato nel 1971 la sua autobiografia – una delle rare prose biografiche scritte da un alto funzionario jugoslavo –, visse in modo abbastanza appartato, anche se nel 1986 accolse l’invito di Goran Bregović a prendere parte alla registrazione della canzone Pljuni i zapjevaj moja Jugoslavijo («Sputa e canta, mia Jugoslavia») del gruppo Bijelo Dugme.

All’inizio di questo brano, che per i suoi versi pungenti potrebbe essere interpretato come una sorta di profezia del crollo della Jugoslavia avvenuto durante gli anni Novanta, Vukmanović Tempo intona alcune strofe del canto rivoluzionario Padaj silo i nepravdo («Crolla violenza e ingiustizia»).

Accusato di attività sovversive, già dal 1920 nel Regno di Jugoslavia il partito comunista fu dichiarato illegale. Agendo quindi nella clandestinità, i conoscenti di Petar Pavkov erano talvolta costretti a nascondersi da lui per sfuggire alla polizia: in quanto «uomo di famiglia» e proprietario di una locanda a Krnjača, probabilmente non richiamava l’attenzione delle autorità che si preoccupavano del radicalismo che muoveva gli studenti. La taverna e casa dei Pavkov divenne rifugio di numerose personalità interessanti che vedevano se stesse come combattenti contro l’establishment capitalista dell’epoca, e probabilmente fu proprio allora che nacque l’idea della stanza segreta in caso di pericolo. Anche mia nonna Spasenija si unì presto a questi attivisti con il ruolo di corriere: nel doppio fondo dei secchi per il latte trasportava documenti riservati, proteggendoli dalle frequenti retate della polizia. La loro attività si allargò velocemente alla raccolta e preparazione del cibo che distribuivano poi ai prigionieri politici rinchiusi in carcere. Tutto ciò richiedeva molto tempo e organizzazione, ma dimostrava anche che una singola famiglia – allargatasi nel 1938 con la nascita di mio zio Borivoje – poteva fare qualcosa per la «causa comune».

Grazie forse all’esperienza maturata in queste attività cospirative, anche nello scenario in parte mutato dell’occupazione nazista i loro affari non diminuirono ma anzi si allargarono. Nonostante tutte le tragedie che avvenivano attorno a loro, Petar e Spasenija nel dicembre del 1941 ebbero due gemelli, Milanka – mia mamma – e Milan, che in quel contesto bellico si ammalò e morì un anno dopo. Mamma diceva sempre che a causa di quel fatto ha sentito per tutta la vita una certa malinconia, difficile da descrivere. Mia nonna mi raccontò che in mezzo a tutte le vicende di quel periodo tormentato ebbe anche un attacco di appendicite. Al posto dell’anestesia che durante l’occupazione era pressoché impraticabile, prima dell’operazione – quindi prima che le aprissero lo stomaco – le diedero da bere un po’ di rakija… al termine della guerra, Petar e Spasenija ebbero anche Olga, nata nel 1946. La vita andava avanti…

Leggi la presentazione del libro Il quaderno di Radoslav e altre storie della II guerra mondiale, in uscita a settembre grazie alla collaborazione tra la casa editrice torinese 001 Edizioni, Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa e Confluenze.

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