Il sosia - Confluenze

Il sosia

Pubblichiamo sul nostro sito il racconto "Il sosia" dello scrittore albanese Bashkim Shehu, che abbiamo coinvolto all'interno del progetto di crowdfunding "Storie dal mondo. Viaggio tra le voci degli scrittori" curato dai nostri partner di Viaggiemiraggi. Il libro sarà presto disponibile presso l'ecommerce di ViaggieMiraggi.

Si dice che anche Enver Hoxha, il dittatore albanese rimasto al potere dal 1944 fino alla sua morte nel 1985, durante gli ultimi anni di vita abbia avuto un sosia. Non si conosce né il nome né la professione, anche se si dice sia stato un attore che poteva imitare non solo le posture e la mimica, ma, di tanto in tanto, alla bisogna, anche la voce di Enver Hoxha. Non si tratta sicuramente di un attore famoso, perché altrimenti la sua identità sarebbe venuta a galla, al massimo poteva essere un attore di seconda fila di qualche piccola città o di qualche centro culturale di una cooperativa agricola, così come si crede lo sia stato anche uno dei quattro sosia di Stalin, individuato in un Kolchoz[1] nella valle di Kodori, nella sua Georgia.

Del sosia di Enver ha scritto per la prima volta, più di chiunque altro, il giornalista belga Jean- René Daems. Arrivato in Albania durante le rivolte nella primavera del 1997, Daems scrisse un reportage con sfumature da feuilleton, dal titolo I fantasmi del passato ritornano, pubblicato sulla rivista L’après-midi. Il reportage si apre con il suo traduttore albanese, lo studente F. F., che durante il coprifuoco, all’improvviso, si precipita nel suo albergo e tutto eccitato gli dice di avere una bellissima notizia: in un paese poco distante da Tirana, quaranta chilometri a sud, ha scovato il sosia di Enver Hoxha. Questo villaggio si trovava alla periferia dei territori occupati dai ribelli ed era raggiungibile pur essendo in vigore lo stato di emergenza. La mattina seguente i due partirono all’alba. Ecco come prosegue il reportage:

«[…] Non fu difficile raggiungere il paese dove era apparso il sosia di Enver Hoxha, un paese isolato, di nome Briccolo […]. Nel mentre il sosia (il cui nome non lo sapeva nessuno degli abitanti del luogo) era scomparso nuovamente. Non ci rimaneva altro se non capire come mai fosse apparso all’improvviso, e come fare a rintracciarlo. Ci venne detto che era arrivato da un altro paese ancora più isolato, Nuovo Briccolo, dove per anni aveva vissuto come confinato. Non si era mai spostato da lì, nemmeno dopo il maggio del 1990 e l’abolizione di tutti i provvedimenti di confino, novità che, a quanto pare, questo poveraccio non era nemmeno venuto a sapere o che forse aveva volutamente ignorato, preferendo continuare a scontare una pena decaduta. Di fatto solo ora usciva, perché aveva saputo che era giunta la fine del mondo.

Questo e quello che segue i nostri vari interlocutori l’avevano ascoltato dalla sua voce, dal sosia, anche se probabilmente molti dettagli li aggiungevano di propria sponte mentre la narrazione passava di bocca in bocca, finanche quando ripetevano tra loro quello che si erano già raccontati, correggendosi l’un l’altro e correggendo persino se stessi, storpiando seppur di poco ciò che gli era appena stato riferito, cosa che notai avvenire anche in nostra presenza, proprio lì, tra una conversazione e l’altra. Costui, dunque, il sosia di Enver Hoxha, ora che aveva sentito dire che si stava avvicinando la fine del mondo, aveva deciso di uscire dall’isolamento e di affrontare la luce del sole, con il suo vero aspetto. Perché fino ad allora era uscito travestito, con o senza barba, con lividi di vari colori autoinflitti, addirittura con le mandibole o una buona parte del volto fasciato di garze, quasi come l’uomo invisibile di Herbert G. Wells, oppure avvolgendo il capo di stracci che lo facevano sembrare un pazzo. Ed è proprio così che lo considereavano nel paese dove era confinato: pazzo. Ma io non sono matto, sosteneva il sosia. Ho buoni motivi per nascondermi. E poi spiegava come fin da subito avesse capito il perché della sua condanna, proprio a causa di quella somiglianza con il Primo del paese. Ecco come andò.

Dopo aver servito per lungo tempo nel ruolo di sosia, lo avevano preso e mandato al confino. In quel paese sperduto, di nome Nuovo Briccolo, e questo proprio quando Enver era stato colpito da una grave malattia: allora, proprio allora, quand’egli si aspettava che il suo ruolo sarebbe diventato ancora più utile, perché sarebbero aumentate le occasioni di sostituire il padrone agli occhi di tutti quelli che non sapevano che Hoxha avesse un sosia, vale a dire agli occhi di quasi tutto il mondo. La decisione non fu di quei pochi che erano a conoscenza dell’esistenza di un sosia, e che, dinanzi a una malattia che sembrava non avere rimedio, temevano che questo potesse prendere il posto del dittatore dopo la sua morte. No, fu lo stesso Enver a condannare il suo sosia, proprio quando gli poteva essere più utile che mai! Il sosia si era presentato al suo cospetto come di consueto, per ricevere le istruzioni sul da farsi e su come si doveva comportare alla prossima occasione di sostituzione; ma Enver, seppur agonizzante, gli si scagliò contro con una forza che non si vedeva da tempo, urlando e sbuffando: “Chi è questo? Cosa fa qui? Non l’avete ancora fatto fuori?” [Nel reportage, queste parole di Enver sono state riportate anche in albanese, grazie alla trascrizione delle conversazioni registrate con il dispositivo a nastro dallo studente F.F e tradotte in francese da quest’ultimo. In questo modo, le forme dialettali del parlato di Enver Hoxha, diverse da quelle del dialetto della provincia dove si trovavano i paesi Briccolo e Nuovo Briccolo, costituiscono una prova del fatto che i contadini le avevano ascoltate dal sosia in persona, e, di conseguenza, sono una prova, anche se non schiacciante, che questi lo avevano visto per davvero il sosia di Enver Hoxha]. Il sosia, ovviamente, rimase sorpreso da questo suo rianimarsi e ancora di più dalla punizione che ne seguì.

Ma, nei giorni seguenti, pensando e ripensando al pasticcio in cui si era cacciato, si tranquillizzò rendendosi conto che era successa una cosa mai vista o sentita prima, Enver si era trasformato nel suo sosia e il sosia era diventato Enver, o viceversa, e che d’ora in avanti lui sarebbe stato Enver, mentre quell’altro che regnava nelle veci di Enver era il falso Enver. E non poteva esserci altra spiegazione. Proprio per questo, lui che era il vero Enver doveva nascondersi, non apparire. Doveva nascondersi fino a quando non sarebbe arrivata l’ora. Per questo aveva dovuto improvvisare diversi travestimenti per fare in modo che nessuno potesse scorgerne il volto. E nessuno, in quel paese sperduto, durante tutti quegli anni, riuscì mai a identificare chi fosse quello strano individuo. Nessuno tranne uno, o per meglio dire tranne una, ai cui occhi egli si rivelò, una lontana notte d’estate [qui l’autore del reportage crea un parallelo con Il sogno di una notte di mezza estate, dove la regina delle Amazzoni si innamora di un asino].

[…] Lei era una donna di mezza età, anch’ella mandata al confine, una rom chiromante, e probabilmente per questo motivo si trovava lì. Lui, il sosia, ne era attratto. E per questo la seguiva spesso, di nascosto e con un po’ di timore, per le vie infangate del paese. Ma lei non gli dava corda. Fino a quando, una notte di luna piena, si nascose dietro alla baracca di eternit dove la donna abitava, aspettando che tornasse, e uscì mentre lei stava per rincasare, togliendosi tutti gli stracci che gli coprivano la faccia, mostrandosi per come era [anche qui il giornalista scrive che l’attore sconosciuto fece nello stesso momento il ruolo dell’asino e quello di Oberon, il re delle amazzoni della commedia sopracitata]. Enver, sospirò la povera chiromante con un filo di voce. E si buttò tra le sue braccia. Lui l’afferrò e con le dita affondava nelle sue carni. Era come se la donna lo stesse aspettando. Lo trascinò dentro la baracca e da lì dritto all’interno del suo ventre. Godettero come due sventurati. Mentre si accasciava di fianco alla donna, meravigliato e un po’ intimorito da se stesso – forse perché era la prima volta che dopo tanti anni dormiva con una donna, gli sembrò come fosse la prima volta, mentre lei spostava il suo peso da un gomito all’altro – questa le chiedeva con insistenza: “chi sei tu?”, “Enver”, insisteva lui. Ma lei non si convinceva. Lo prese per un pazzo.

Nonostante questo proseguì a conversare con quel poveraccio portatole dalle tenebre, e gli raccontò la sua storia, di come l’avevano spedita qui in culo al mondo. Emerse che il motivo della sua condanna era simile. Un giorno aveva letto la mano a un’altra donna, le aveva predetto tanti funesti avvenimenti, ma senza sapere chi fosse. Cosa che aveva intuito solo alla fine, e allora glielo aveva domandato direttamente. La donna confermò: aveva nascosto la sua identità per non influenzarla e lasciare che predicesse le verità che doveva predire, ma era la moglie del Capo, di lui, del Capo in assoluto, di Enver Hoxha, proprio di lui! Tutto questo avrebbe portato alla rovina la cartomante, la povera rom con tanti figli ora rimasti orfani in quel quartiere alle periferie di Tirana, anche se qui, che Dio non voglia, sarebbe stato ancora peggio per loro, per questo non aveva nemmeno tentato di portarseli dietro. Invece tu, mal che vada, disse all’amante, non hai nessuno a questo mondo. E come lo sai tu, le aveva risposto il sosia. Lo vedo, aveva ribadito la donna.  Alla fine, lui le chiese di leggergli la mano. Ella predisse che, sebbene non fosse ancora diventato Enver, un giorno lo sarebbe diventato: sarebbe arrivata la sua ora, doveva solo avere pazienza, così come l’aveva avuta sinora. L’indomani la donna sparì, sparì senza lasciare traccia. Non la vide più nessuno, né si sapeva come era sparita.

Mentre raccontava tutto questo davanti a una folla di contadini del Nuovo Briccolo, lui, il sosia di Enver Hoxha, o chiunque fosse, il suo fantasma, di Enver Hoxha s’intende, oppure del sosia di Enver Hoxha, comunque lui, confondeva i tempi, collegava e scollegava i fatti, e perciò non si capiva se l’avesse saputo fin dal primo momento che sarebbe arrivata l’ora di apparire per Quello che era, oppure se questo lo sarebbe venuto a sapere dalle parole della cartomante in una notte di luna piena, dopo essere apparso come Quello che era, oppure sia una che l’altra, cioè, quando aveva ascoltato da lei quella predizione aveva realizzato che l’aveva sempre saputo sin dall’inizio. Allo stesso modo sosteneva di essere Enver per smentirsi l’istante dopo senza volere, dicendo che non era Enver ma il suo sosia; forse perché si dimenticava che ora aveva deciso di non nascondersi più, mentre per lungo tempo si era salvaguardato con un muro di cautela talmente alto da imporre a se stesso il desiderio stesso di nascondersi. Ed ora, ora che il mondo stava cadendo a pezzi ed era arrivata la sua fine, ora che al contempo era giunta l’ora che Lui uscisse in piazza, o meglio che uscisse di nuovo, Lui sapeva come farlo. Perché volente o nolente, ne aveva imparate di cose facendo da sosia di Enver Hoxha: aveva imparato una serie di astuzie e utili scaltrezze, e, soprattutto, quell’abilità di stare in mezzo alla gente, di parlare con voce acuta o a renderla più rauca, di sollevare le sopracciglia in segno di stupore oppure aggrottarle con aria minacciosa e di fare sorrisi di vario tipo oppure imbronciare le labbra, o cambiando la forma degli occhi sgranandoli, o al contrario assottigliandoli pensoso oppure elargendo sguardi appannati o smarriti, o addirittura quanto c’era di più ineffabile, quell’espressione che deve avere il volto di un leader che non può essere narrato o descritto a parole. Quella sua maschera prodigiosa, per così dire.

Aveva detto questo, più o meno, il sosia di Enver Hoxha, anche se suppongo, come ho detto sopra, che tante cose possano essere state aggiunte e storpiate da quelli che lo avevano ascoltato e ne avevano discusso tra loro, prima di parlare con me.

Ma dove si trovava, ora, il sosia di Enver Hoxha? Mi hanno riferito che era sparito, ma come era sparito? Quello stesso giorno era partito verso un altro paese, verso Deretanio, in direzione opposta rispetto al paese da dove era arrivato e incamminandosi sullo stradone automobilistico, con lo scopo di raggiungere prima possibile Tirana. Ma, probabilmente era inutile cercarlo a Deretanio siccome si diceva che fosse sparito anche da lì. Si diceva fosse andato in un altro paese, chiamato Nuovo Deretano, ancora più vicino alla capitale. Secondo un’altra leggenda che girava in quelle zone, quella sera stessa era arrivato l’esercito che marciava per schiacciare la rivolta. Si diceva che un’unità speciale,facendo marcia indietro, l’avesse portato con sé a Tirana. Dopodiché se ne persero le tracce […]».

Il giornalista belga chiude il reportage con alcuni commenti sull’attendibilità del racconto degli abitanti del paese di Briccolo. Scrive che il passaggio che racconta la reazione del malato Enver Hoxha contro il sosia rende attendibile questo racconto. Ed ecco perché. Nelle leggende nordiche, l’apparizione del sosia, che i romantici tedeschi hanno chiamato Doppelgänger[2], è un cattivo segno, presagio di disgrazie o morte, e questo rende comprensibile la paura di Enver Hoxha mentre giaceva nel letto, perché in fin dei conti le leggende hanno un fondamento di realtà, si fondano su diverse esperienze accumulatesi nel corso dei secoli, sulle paure nate da coincidenze arcaiche di eventi rari, come è appunto l’apparizione di un sosia rispetto ad altri eventi. Se i fedeli di Enver Hoxha non annientarono il sosia è perché molto probabilmente immaginavano che sarebbe ritornato utile. Comunque sia, riflette il giornalista Jean-René Daems, è difficile che i contadini di quelle parti potessero conoscere le leggende nordiche, cosa che porta a ritenere che il loro racconto non sia inventato. D’altro canto, egli aggiunge che non è improbabile che nelle regioni dei paesi di Briccolo e Nuovo Briccolo ci sia una qualche traccia di leggende nordiche, ma questa questione il giornalista la lascia agli etnografi, agli antropologi e ai mitologi. Nel frattempo, comunque la si pensi sulla testimonianza di quei contadini, vera o inventata che fosse, il giornalista conclude che un tale racconto, girato di casa in casa come una fantasmagoria collettiva, conferma quanto sostenuto in scritti che precedono quella primavera concitata, ovvero che l’Albania non si è ancora distaccata dal suo passato, che «le ombre dei morti si sono mescolate con quelle dei vivi, cercano di regnare attraverso i vivi e, possiamo dirlo, ci riescono…in qualche modo».

Traduzione dall’albanese a cura di Mirela Alushi

Note:

[1] Azienda agraria collettiva sovietica.

[2] «Il sosia».

Ultimi Taccuini

Una gita di incontri

Pubblichiamo volentieri alcuni ricordi di studentesse provenienti da classi terze del liceo artistico Orsoline di Milano, che dal 1 al 5 aprile scorso hanno aderito al nostro viaggio d'istruzione in Bosnia Erzegovina organizzato come sempre...