Una gita di incontri. Seconda parte - Confluenze

Una gita di incontri. Seconda parte

Il racconto per testo e immagini di Sofia chiude la serie di ricordi scritti da studentesse provenienti da classi terze del liceo artistico Orsoline di Milano, che dal 1 al 5 aprile scorso hanno aderito al nostro viaggio d'istruzione in Bosnia Erzegovina organizzato come sempre in collaborazione con ViaggieMiraggi.

A entusiasmarlo fu specialmente (…)
Il luogo del serraglio, Sarajevo,
perché vi si sposava l’impossibile:
buon vino e minareti, sinagoghe
e minigonne, foreste del Nord
e litanie di una Grecia profonda.”

(La cotogna di Istanbul, Paolo Rumiz)

Questi versi racchiudono con esattezza i ricordi che ho di Sarajevo, Jajce e Mostar: luoghi abitati da persone che portano con sé tradizioni e culture diverse, avvenimenti tragici che hanno segnato le loro vite. Eppure si può ancora trovare la vita, i sorrisi per le strade, taverne affollate e profumi orientali che riempiono l’aria di nostalgia.

Istantanee

Le ore passavano lente, la sonnolenza del risveglio di prima mattina si faceva sentire, mischiandosi col paesaggio monotono del cemento della strada. La Bosnia si faceva attendere, minuto dopo minuto, finche apparve in tutta la sua bellezza, mostrandoci un fiume interminabile, verde come una foresta, e le sue montagne, rocciose e taglienti come un coltello. Dopo una violenta pioggia, lo stormo di nubi lasciò intravedere un tramonto rassicurante, dolce e accogliente: ecco, finalmente, i colori della Bosnia.

 

Arrivati a Jajce, accolti da un cielo notturno pieno di speranza ed elettricità, ci siamo sistemati in una taverna tipica, una di quelle con le scale di legno, la luce soffusa e un calore che trasmette un senso di torpore. Ho assaggiato quella che è la zuppa più appetitosa della mia vita, ho chiesto al cameriere la ricetta. Il cameriere, anche se stupito, ha risposto di buon umore alla mia richiesta.

A Jajce sono stata ospitata, assieme ad alcune compagne, nell’appartamento di una coppia di anziani. Il signore, scoprii, parlava tedesco, come me. Il fatto di poter comunicare e comprendersi, nonostante la differenza di provenienza e d’età, mi ha riempito il cuore. Il signore mi ha raccontato della sua famiglia, e io della mia, e di altri aneddoti, e sono grata di aver vissuto questo scambio con lui. La mattina dopo, spalancando la finestra, abbiamo potuto vedere la città nella sua essenza, inondata dal sole, che a sua volta illuminava le cascate color smeraldo sotto di noi.

Avendo questo paesaggio come vista, abbiamo trovato spontaneo ballare al ritmo di musica bosniaca, scatenandoci su parole a noi sconosciute e dal suono duro ma confortevole. In noi si stava manifestando un senso di novità, estraneità ma soprattutto curiosità, per il fatto di essere finite a chilometri di distanza dalla nostra casa, in un luogo silenzioso, colorato, diversissimo.

 

Arrivati a Sarajevo, la città tra i monti, abbiamo passeggiato in centro: bazar di ogni tipo, negozi di tessuti, bar che servono il caffè tradizionale, sinagoghe, chiese e birrerie. Un raggio di sole tagliente rendeva d’oro tutte le superfici che toccava, mentre visitavamo per la prima volta il cuore di Sarajevo.

Pochi attimi dopo, ho avuto il secondo scambio con un bosniaco, era un musicista di strada, accompagnato dal suo cane. È bastato un cenno del capo e un sorriso per accendere il suo volto. Questa conversazione di sguardi rappresenta a pieno l’animo dei bosniaci, sempre disposti a rivolgerti la parola e parlare del più e del meno.

Un’ulteriore interazione amichevole l’abbiamo avuta con un signore, che portava lo stesso cappello di Arianna. Dopo esserci intesi con uno sguardo, ha iniziato a parlarci ma, notando che non lo capivamo, ha cominciato a gesticolare per chiederci di fargli una foto assieme a lei. L’ennesima prova della dolcezza e dell’umorismo spiccato dei cittadini.

Al risveglio dell’ultima giornata a Sarajevo, la città era ricoperta di bianco. La neve sembrò così naturale e adatta alla città, i cittadini continuavano la loro giornata, sembravano abituati.

Ho trovato che la neve, nonostante avesse portato con sé le nuvole, non rabbuiava la città, rimaneva quel senso di calore e vivacità.

Prima di arrivare a Mostar, abbiamo fatto sosta a Blagaj, un paesino nei dintorni. Giungere in quel luogo è stato come teletrasportarsi: dalle case ricoperte di neve ci siamo ritrovati tra montagne rocciose, taglienti, con un sole primaverile e un fiume limpido che scorreva tra le abitazioni.

Siamo entrati nel monastero musulmano, la Tekija, luogo estraneo e inesplorato, fino ad allora per noi. Abbiamo ascoltato rituali e usanze di una religione diversa, camminando sopra tappeti rossi dai ricami preziosi, e sedendoci per terra, attorno a un tavolo basso dove si usava mangiare i pasti assieme agli altri. È avvenuta in questo momento la rivelazione più inaspettata: mi sono sentita a mio agio, guidata dal silenzio pacifico e rasserenante, un silenzio che nascondeva il suono dell’acqua che scorreva e il rumore dei passi sul pavimento.

L’addio alla Bosnia è stato il ponte di Mostar. Un ponte che è stato abbattuto, segno di una divisione netta, ma cieca, incapace di vedere le somiglianze nelle persone, uno strappo che ha tenuto conto solo della diffidenza e della paura di ciò che è diverso.

Ma è anche un ponte che è stato ricostruito, da quella gente che di paura non ne aveva.

Leggi la prima parte del reportage delle studentesse del liceo artistico Orsoline di Milano

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