Hemingway non c'è - Confluenze

Hemingway non c’è

di Dušan Veličković. In occasione del caffè letterario che organizzeremo in collaborazione con Radio Popolare, Bottega Errante, ViaggieMiraggi e Q Code Magazine l'11 aprile a Milano alle ore 18 presso ChiAmaMilano, pubblichiamo per gentile concessione dell'autore il suo racconto Hemingway non c'è tratto dalla raccolta Serbia Hardcore (Besa, 2018).

Noto fati paradossali. Da quando sono cominciati i bombardamenti ho bisogno di meno ore di sonno. Dapprima ho pensato fosse una normale insonnia dovuta all’inquietudine e all’ansia. Poi ho semplicemente capito che avevo bisogno di meno sonno. Spesso mi sveglio all’alba perfettamente riposato, addirittura di buon umore, avendo dormito solo poche ore. Constato che la mia inquietudine è stata sostituita da un’acquiescenza fatalista. Quando una forza invincibile prende il tuo destino nelle sue mani è inevitabile che ci sia una trasformazione dentro di te. Qualcun altro veglia sulla tua sorte; se sarà tragica o fortunata non sei tu a stabilirlo. Liberarsi dell’assillo di dover badare al proprio destino è un privilegio raro. I condannati a morte lo sanno bene.

Mi alzo, dunque, all’alba e penso: se avessi una stanza adibita a studio sfrutterei queste prime ore del mattino per scrivere. Scriverei in piedi, dalle sei alle dieci di ogni mattina. Così lavorava Hemingway a Parigi. Forse anch’io potrei descrivere Belgrado come una Festa mobile. Perché non provare? Mia moglie è più realistica. Non è questione di avere o meno uno studio. O sei Hemingway o non lo sei. Mi fa l’esempio di Milorad Pavić. Ha scritto Il dizionario dei Chazàri e molti altri libri di un appartamento più piccolo del nostro. Per non parlare di Dostoevskij. Che vita, la sua! Debiti e ristrettezze di ogni genere. Mia moglie dimentica, però, che Dostoevskij, nonostante l’indigenza, ha sempre vissuto in una grande casa con molte stanze.

Incompreso, esco in strada. Passo accanto al cassonetto delle immondizie e prendo atto che il primo turno dei cercatori di rifiuti è entrato in azione. Un disperato con una grande sporta in mano e un bastone chiodato nell’altra cerca fra i resti di cibo. Dopo di lui, nel pomeriggio, verrà un signore dai capelli bianchi. Quest’ultimo indossa un’uniforme: una tuta da operaio sulla quale c’è scritto Energoprojekt . In passato Energoprojekt è stata una delle più importanti imprese della Jugoslavia, conosciuta per le grandi opere messe in cantiere in tutto il mondo, soprattutto in Medio Oriente e in Russia. All’uomo di Energoprojekt interessano solo gli oggetti solidi. Conduce la ricerca in modo professionale: ripone gli oggetti scelti con grande attenzione nella carrozzina per bambini che si trascina dietro.

Continuo la mia passeggiata fino a via Resavska. Lì giro a destra e proseguo in salita verso la chiesa di San Marco che si erge all’orizzonte. All’alba, quando questa stretta via, cinta da edifici ben conservati del periodo della Secessione, non è ancora inondata dai raggi del sole mentre la chiesa arde purpurea là in alto, avete davanti uno degli angoli più belli di Belgrado. Prendete uno straniero da un qualsiasi punto sulla faccia della Terra, portatelo in questa via all’alba e chiedetegli se sa in quale città si trova. Sono sicuro che vi risponderà che in una città del genere si vive bene. Non mi dispiace non essere Hemingway, rimpiango tuttavia che nessuno abbia descritto Belgrado come una “festa mobile”. Forse la città avrebbe avuto una sorte migliore.

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